La leggenda della costola del drago nel Duomo di S.Leucio e l’origine della città di Atessa (Ch)

San Leucio (Wikipedia)
San Leucio (Wikipedia)

 

Da sempre l’uomo è stato affascinato da miti e leggende delle epoche passate, nonché da simbolismi e dalla continua ed eterna lotta tra Bene e Male.

L’Italia è un Paese ricco di queste leggende e anche la nostra regione pullula antiche storie tramandate di generazione in generazione.

Tra queste, si narra che ad Atessa, in provincia di Chieti, in una zona sita tra collina e pianura, venga custodito un antico mistero il cui fulcro è nel Duomo di S. Leucio, duomo dedicato a Leucio di Alessandria d’Egitto, vescovo di Brindisi e santo venerato dalla chiesa cattolica nonché ortodossa.

L’uomo visse tra il IV e il V secolo. La cattedrale fu costruita nel XIII/XIV secolo e ancor oggi conserva tracce architettoniche di due stili diversi tra loro, il gotico e il barocco.

Nella sagrestia della chiesa è custodita una teca di vetro in cui è visibile una grande costola di circa 2 metri.

Tradizione vuole che essa venga attribuita a un pericoloso drago che per anni terrorizzò gli abitanti del luogo finché non fu ucciso da S. Leucio.

Si narra, inoltre, dell’esistenza dove sorge oggi Atessa (Atixa) di 2 villaggi, Ate e Tixa, divisi da una valle paludosa e tetra in cui abitasse tale drago.

Era molto rischioso per i cittadini avere rapporti, poiché la presenza del drago impediva loro di incontrarsi.

A liberarli dalla presenza del mostro ci pensò però S. Leucio che, raggiunta la tana del drago, lo nutrì per tre giorni di carne e, resolo sazio, lo incatenò uccidendolo dopo sette giorni.

Inoltre ne conservò il sangue, poi utilizzato dalla popolazione a scopi terapeutici, e una costola, consegnata agli abitanti perché serbassero memoria dell’accaduto. Una tradizione parallela aggiunge che il gigantesco animale sarebbe stato ritrovato morto dinanzi alla chiesa dei monaci Basiliani, che sorgeva al centro di uno dei due villaggi.

Ad ogni modo, la cupa forra che li separava fu colmata permettendo ad essi di unirsi in una sola città, Atessa. La cattedrale in cui venne collocata l’insolita reliquia della costola, pare sia sorta proprio in simbolica corrispondenza del luogo in cui il terribile drago aveva la sua grotta.

Della leggenda del drago una dettagliata testimonianza è leggibile nel libro di Giovanni Pansa “Miti, leggende e superstizioni dell’Abruzzo”, del 1924.

L’autore raccolse la leggenda dal professore Domenico Ciampoli, che a sua volta la trascrisse dal racconto orale fatto il 9 maggio 1909 da una tale Ernesta Miscia di Atessa. Pansa racconta come la costola del drago, esposta da tempo immemorabile, pendesse nel passato da una delle travi del soffitto. La leggenda riportata nel libro vuole che la tana del drago – con l’ingresso largo più di cinquanta palmi – si trovasse a valle San Giovanni, in una grotta profondissima la cui cavità attraversava tutto l’Abruzzo.

Da quella grotta, in località Ritifalco, si estendeva inoltre un bosco di spini talmente folto, che neppure gli uccelli potevano volarvi dentro. Il dragone che viveva in quel luogo, inizialmente si nutriva di pecore, capre ed altri animali, ma improvvisamente cominciò a divorare un abitante del posto al giorno. Come già detto, fu S. Leucio a soggiogare la bestia con la forza della fede, dopodichè la uccise estraendogli una costola a prova della eroica impresa che permise ai due villaggi di unirsi dando vita ad Atixa (Atessa).

Secondo alcune fonti, quella strana costola oggi custodita nella sagrestia del duomo di San Leucio, avrebbe fatto parte di un gruppo di ossa di enormi dimensioni rinvenute ad Atessa in una località chiamata Valdarno. (forse di un dinosauro ndr) Pertanto alcuni studiosi che, scetticamente, cercarono già in passato di dare una interpretazione meno fiabesca di questa leggenda, ipotizzarono che tali resti fossero da ricondurre ad elefanti portati in Italia da Pirro oppure da Annibale durante il suo transito in Abruzzo, ma la spiegazione non convince quanti fanno rilevare come la costola di elefante sia più piccola rispetto a quella custodita nel duomo di Atessa.

Ipotesi più recenti hanno invece dirottato l’attenzione sul versante marino, ritenendo che l’osso in questione possa essere appartenuto ad un Misticeto, ossia un cetaceo dell’omonimo sottordine di cui fanno parte Balenottere, Megattere e Balene in senso stretto.

Una tesi, secondo alcuni, non del tutto peregrina ed eventualmente suffragabile tramite il raffronto con ossa analoghe, di sicura origine marina, presenti in diverse località italiane.

Del resto, come dicevamo all’inizio, ad Atessa si conservano tracce di primordiali fondali marini in strati geologici sabbiosi e l’eventuale ritrovamento di un enorme osso fossile è facile che – in epoche di forte superstizione – scatenasse la fantasia popolare.

Lo stesso Pansa sopra citato propende per una possibile lettura simbolica di quel reperto, scrivendo nel suo libro che “lo straripamento dei fiumi, le paludi mefitiche, i siti lacustri infetti dalla malaria, sono fenomeni naturali che il medioevo impersonò costantemente con la figura del dragone”: uno stato dei luoghi confermato anche dal topografo ottocentesco Giuseppe Del Re che definisce i dintorni di Atessa come “una palude malsana di 6000 moggi”.

Se questa lettura fosse giusta, nulla di più semplice è immaginare che la bonifica delle paludi posta in essere dai monaci di Atessa sia apparsa alla gente del tempo come una rinascita e che la infelice natura originaria dei luoghi sia stata simbolicamente paragonata ad un mortifero dragone.

Stefano Muzi

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