
(DAM) Pescara – Il seguente speciale tratterà del “Realismo dell’Evidenza” nella poetica di Gabriele d’Annunzio Vate d’Italia, a cura di Alfredo De Felice, studente del Liceo Classico Gabriele d’Annunzio di Pescara che, a tal proposito, ha dichiarato “ritrovo nello studio della classicità e del pensiero, e delle arti umanistiche, l’unico modo per tentar risollevare il mondo tutto dallo stato di civilizzante barbarie in cui esso giace come corpo inerme sul fondo dell’abisso; sento
nel petto un ruggito, un eco che diparte dall’intimo per destare tutto il mio corpo a ricongiungermi, a diffendere la mia Italia. E non trovo radice che più fieramente mi leghi alla mia dolcissima terra abruzzese, nostra piccola patria, che il volto del Vate. Esso mi sovviene come un’immagine famigliare,come la figura più simile all’ideale italico che ho nel cuore; egli rappresenta in tutta la
sua immane portata il tipo umano a cui irrefrenabilmente tendo”.
Gabriele d’Annunzio ed il “Realismo dell’Evidenza“
Che l’uomo sia indissolubile unità di corpo e spirito, inequivocabile sintesi di ragione e volontà, di forma e forza e che da questa sintesi si sviluppi il sentire soggettivo riguardo la realtà, sicché tutti i fenomeni appaiano come trasfigurazioni diverse da soggetto a soggetto, come metafore
individuali riguardo l’universale, non è idea molto comune, ma fondamentale per trascendere in un’analisi critica del Divus d’Anunnuzio.
Per il Vate la metafora non è un vano artifizio retorico, sì meramente concepito dai molti, ma essa rappresenta il modo differente di percepire la vita tipico degli uomini superiori. Ed è da questa osservazione che faccio dipartire il mio studio su Gabriele d’Annunzio e sul suo ambiguo e difficoltissimo “Realismo dell’Evidenza”, tentando spiegare l’intentato fin ad oggi! Ché parlando di realismo in
accostamento al Vate per troppo tempo, e solo in virtù di una lettura superficiale, si è omesso molto della tendenza del poeta a rappresentare la realtà.
Si è detto che il poeta seppe apprendere nella prima parte della sua produzione in prosa l’intera lezione verghiana, e ciò soltanto basterebbe a farlo un verista ad hoc. Ma questa è una lettura scarna ed inefficace difronte a tutta la poesia e alla prosa posteriore a quelle naturalistiche novelle
della Pescara.
Ma allora come? Come definire verista d’Annunzio? Come definire naturalista il principe del decadentismo?
Per il mio scopo ho da definire prima come egli concepì la realtà e in tutte le sue configurazioni.
Per il Vate, come scrive in una missiva al suo traduttore francese Hérele, “la poesia è la realtà assoluta. Quanto più una cosa è poetica, tanto più è reale”, nel modo che la percezione sensibile delle cose non corrisponde alla cosa in se; nel modo in cui il significato letterale o oggettivo del
mondo non coincide con il significato figurale o allegorico che gli uomini superiori gli
attribuiscono. Si direbbe quindi che Gabriele d’Annunzio fu il più grande realista della storia ma che la percezione di una realtà fisica e sensitivamente intellegibile del suo mondo poetico fosse riservata interamente a quei pochi che “sentivano” come lui. Certamente sarebbe ora necessario mutare il significato di realismo, da rappresentazione e constatazione effettuale della cosa a
elaborazione dei fatti e dei personaggi che raffigura il mondo in maniera evidente, nel senso che l’artista plasma con la parola le idee di una natura manifeste a tutti, e che rielaborandole colloca quelle figure ad ognuno comuni ed evidenti in modo differente dall’ordinario, non curandosi della
verosimiglianza della narrazione ma solamente della realtà di quanto racconta.
In poche parole egli è capace di inserire delle favole negli spazi e negli ambienti della società.
È da un idea generale che crea la trasposizione del reale in un mondo fittizio quale quello poetico.
Così giungo alla definizione di “Realismo dell’Evidenza”: una copia della vita che trascende la pura esperienza ma che colpisce con la raffigurazione letteraria l’intelletto del lettore costringendolo ad
accettare, con la propria evidenza, l’esperienza del fatto, o dell’immagine descritta, pur essa inverosimile.
Ed è nel Notturno che le mie parole trovano un più immediato riscontro, dacché nel libro il sogno è la vita e la vita una musica solo da immaginare ed esplorare che eppure appare come quasi già conosciuta al lettore, così evidente; nel libro ogni parola viene caricata di significato misticofilosofico pur mantenendo la potenza e l’immediatezza espressiva intuitivo-poetica. Lì d’Annunzio parla sempre con l’urgenza e la necessità del profeta; egli è come trasognate di quello che scrive. Lui non inventa, ma vive nel sogno, vive il sogno di ciò che produce, quasi per
una mistica aggregazione di emozioni che scaturiscono una visone del mondo unica, totalmente metaforica e poetica eppure reale, eppure totalmente umana, evidente all’occhio del lettore perché evidente all’occhio del poeta.
Leggendo le sue opere è come se si potesse vivere e vedere ciò che egli difatti sogna soltanto. Si è capaci di sognare insieme a lui… il rumor dell’onde che battonsi sull’isola di San Michele mentre la rutila bara del compagno scalfisce sullo scafo l’acque… il pianto degli amici, dei compagni di
guerra, o la battaglia vista dal ponte delle navi… è tutto finto, ma il libro assurge ad un’imitazione totale del sogno o del ricordo, il connotato di un’altro mondo, di una realtà più evidente della realtà.
Difficile è accorgersi di ciò in letteratura… più facile in musica, più semplice in pittura.
Ecco!… Al pari del Notturno sono evidenti le fotografiche impressioni dell’amico Michetti. Vedasi l’opera del maestro primavera e amore, tela nella quale un puro idillio, un sogno totale che par uscito dalla prima Bucolica Virgiliana, viene reso con la perfezione e l’esattezza fotografica della
realtà più pura. Il paragone con l’amico del convento mi è necessario per giungere a una parziale conferma del mio argomento… Ma si riprendano i Testi!
Nel Notturno ci troviamo difronte a tutta la realtà umana elaborata da d’Annunzio con tutte le sue sofferenze e carenze, tutti i suoi malanni, le sue gioie.
Ci troviamo difronte ad eventi che passano davanti alla mente del lettore come le immagini di un sogno ma che mantengono un’evidenza naturalistica e descrittiva di fondo impressionante, unica nella letteratura moderna.
Ma il motivo per cui mi trovo isolato nel descrivere questo eccezionale caso della letteratura, questa totale rivalutazione e manifestazione di ambiguità di accezione del termine realismo, è per la ristrettezza di orizzonti di quanti mi hanno preceduto, i quali hanno concepito il Vate prima
come personaggio storico e poi come poeta, ignorandone molto per pregiudizio… dalle brevi conclusioni raggiunte è inevitabile constatare che in questo realismo non è più la forma in se a portare significato e a descrivere, ma è la commozione che il soggetto descritto porta allo scrittore ed al lettore l’unica modalità per comprendere la narrazione; ci troviamo in d’Annunzio in
quel fenomeno avvenuto in pittura per il quale si è passati dal naturalismo all’impressionismo; dalla forma in se come narratrice, al colore, o al suono, come criterio unico della produzione artistica; dalla descrizione del sensibile, a narrazione di ciò che è sentito e riportato in tutta la sua
evidenza non assoluta, ma soggettiva dell’artista.
Ci si può chiedere da dove sia nata una simile volontà di rappresentazione in d’Annunzio… la fusione così evidente di spirito e corpo, dove lo spirito comunica le forme del copro, ovvero, la rappresentazione sensibile di contenuti trascendenti.
È inevitabile che in questa scelta sia ascoso l’ ἦθος di voler fuggire una realtà infamante nei suoi organi borghesi, ignoranti e presuntuosi nella propria ingordigia come assoluti e insaziabili vigliacchi; di voler fuggire da quella massa di piccoli o e grandi usurai,piccoli o grandi barattieri, carne sopravanzata alla bolgia quinta dell’ottavo cerchio!
Non si può ignorare questo manifesto carattere della poetica decadente… Ed è in questa volontà di romantica fuga dalla realtà nell’arte, che in d’Annunzio rinasce l’urgenza
classica di rappresentare un mondo fuori dal mondo, più vero del vero. Quello del Vate è un
recupero totale della filosofia estetica greca e poi medioevale. Dell’impulso della dottrina delle idee mescolata a quella dell’autorealizzazione dell’essenza nei fenomeni di Aristotele: i modelli
assoluti, le Idee trapassano dall’ὑπερουράνιος all’anima dell’artista, quindi un trapasso dalla
trascendenza all’immanenza. Nell’animo dell’artista si interfacciano l’idea e l’imitazione di essa, creando un dualismo che nella rivalutazione aristotelica sarà ribaltato nella concezione del divenire, inteso come passaggio da forma a materia.
Ecco la nozione della filosofia estetica classica totalmente rinata nello spirito romano dannunziano: il fenomenico, l’oggetto naturale, realizza l’idea e diviene soggetto della mimesi; ma poiché esso a causa della forma creatrice presente nella mente dell’artista diviene nuovamente
materia, vale a dire che il soggetto imitato nell’arte diventa oggetto maggiormente formato e, quindi di valore più ampio rispetto al fenomenico reale da cui deriva.
L’artista per d’Annunzio e questo è ben chiaro leggendo le pagine del Fuoco, è padrone di una lettura del mondo superiore a tutti; egli padrone di una fiamma plasmatrice, di un potere trascendente di evocazione sentimentale nel pubblico…
Il cosmo artistico dannunziano, perfetto, equivale così ad un sogno piacevolissimo nel quale a tutti o quasi è possibile ritirarsi, come in pace dalla nullità del moderno. Ed è qui che nasce il dolce legame tra’il pensiero del prussiano Nietzsche ed il pescarese d’Annunzio: il super-uomo sa creare altri
mondi; egli è un dio, il demiurgo, il divino artefice di una realtà plasmata ad immagine e somiglianza del proprio desiderio. E l’unico desiderio di Gabriele d’Annunzio non poteva che essere modificare il mondo e sdraticarlo via dalla fanghiglia borghese; non poteva che essere di fuggire da tutta la volgarità umana, e non trovando riparo tra le gambe di una donna non poteva che rimanergli tentare l’arte come ultimo asilo, ultimo porto di chi è stato disalberato da una tempesta irrimediabile.
Ma questa fuga tentata dal Vate va oltre difatti la semplice letteratura e tocca la vita condotta nelle irrefrenabili passioni come alla ricerca di una perpetua ubriachezza dionisiaca; tocca la politica e così la storia. È già nell’impresa fiumana che d’Annunzio produsse nel mondo reale ciò che aveva
proposto solamente in letteratura; ciò che aveva solamente sognato. In quelle cinquecento giornate risorse a Fiume tutto lo spirito ellenico in un socialismo pratico, di immediatezza culturale, di libertà umana. Per le piazze si consumarono le passioni degli uomini, delle donne che seguitarono nei bei palazzi del Quarnaro.
La verità è che d’Annunzio non fece Fiume libera, liberi furono i suoi abitanti, che vissero nel reciproco rispetto e nell’assoluta fratellanza. Nell’uguaglianza che naturalmente può esistere solo tra gli individui simili. Si costruì un mondo fuori dal mondo, la perfezione fu data al cielo, sorse
una nuova vita da quella vita che tutti conoscevano. Una nuova libertà. La finzione fu fatta realtà… più vera della realtà stessa. L’idillio era realistico ed evidente a tutti.
Alfredo De Felice