Il sacrifico del maiale, antico “rito” dei Saturnalia nella tradizione contadina

(DAM) Abruzzo – Il “rito” dell’uccisione del maiale in inverno ė una tradizione antichissima che ha le sue origini nelle popolazioni italiche – romane che abitavano la penisola italiana.
In particolare, il sacrificio del maiale avveniva durante le feste dei “Saturnalia” che si svolgevano nell’ultima decade di dicembre, alla fine dell’anno agrario che apriva il periodo in cui si svolgevano una serie di riti sacri per la prosperità del nuovo anno e che precedevano la festa del “Sol Invictus” (l’equivalente del Natale), quando gli agricoltori romani sacrificavano il suino, considerato portatore di prosperità e di benessere, in onore di Saturno, divinità che fra i popoli italici era considerata anche protettrice della semina e della fertilità della terra (Sui Saturnali vedi anche  Aulo Gellio – Noctes Atticae – libro II e Macrobio – “I Saturnali – a cura di Nino Marinone – Unione Tipografico-Editrice Torinese – Torino – 1967)

Il maiale “sus” è considerato nella tradizione il “re della mensa mediterranea” e la sua importanza nei riti sacrificali sta a dimostrare, a livello storico – sociale, l’importanza che esso aveva nella sfera del “rus”, cioè della vita del villaggio agricolo.

A tal proposito, altro antico rito che dimostra l’importanza sacrificale del maiale per il mondo arcaico contadino italico – romano e non solo, la troviamo nel “Suove Taurilia”, solenne sacrificio di tre capi di bestiame, un suino (sus), un ovino (ovis) e un toro (ovis) che venivano immolati in onore di Marte, protettore dei campi e delle armi, ogni qualvolta si riteneva necessaria una “Lustratio”, rito di purificazione ritenuto necessario per la produttività e la prosperità della terra e del villaggio (pagus), ma anche per infondere forza all’esercito. I tre animali prima di essere sacrificati alle divinità, venivano fatti sfilare in processione per ben tre volte consecutive intorno a ciò che doveva essere purificato, nel caso del mondo agricolo, intorno ai campi e/o alla casa.

Siamo a conoscenza dei dettagli minuziosi del rito dei “Suove Taurilia” grazie all’opera “De Agri Cultura” di Marco Porcio Catone il Censore, ad un bassorilievo rappresentato su un monumento funebre custodito al Louvre di Parigi, e alla rappresentazione nella parte esterna dei plutei traianei nei Fori, a simboleggiare probabilmente la purificazione “lustrazione” perenne della zona.

Questo antico rito è continuato per secoli fino all’età contemporanea nella tradizione della cultura contadina italiana.

Infatti, fino ad alcuni anni fa molto spesso, oggi più raramente solo nelle contrade dei paesi di campagna, avviene l’uccisione de “Lu porce” ai primi freddi di dicembre.
L’avvenimento è una di quelle consuetudini contadine, strettamente legate alla terra e ai suoi frutti, che seguono il ritmo naturale del tempo e delle stagioni. Una prassi dal forte valore simbolico, un momento di sentita aggregazione sociale.
Ogni famiglia alleva meticolosamente il proprio maiale che fornisce la carne per tutto l’anno ed in particolare per i mesi invernali e che per secoli è stata l’unico apporto di proteine e grassi alla dieta vegetariana praticata dalle società contadine.

Il consumo di carne nelle campagne, fino ad alcuni decenni fa, avveniva esclusivamente nelle ricorrenze e nelle giornate festive e non in tutte sistematicamente, considerata la limitata disponibilità.
Solitamente il suino veniva acquistato nelle fiere locali prima dell’estate o dai mercanti che nel mese di settembre si recavano direttamente in paese per venderli.
Il maiale veniva sistemato nel porcile dove veniva alloggiato e spesso coabitava con gli altri animali della stalla. Durante il giorno gli venivano dati in pasto i frutti raccolti in campagna, bucce, verdure, erbe e tanto altro, mentre la sera si preparava la “tina”, una specie di brodaglia fatta con crusca, acqua calda e patate lesse, con l’aggiunta di avanzi alimentari.
Con l’avvicinarsi del tempo del sacrificio, la qualità dell’alimentazione del suino migliorava al fine di garantirgli un ingrasso rapido. Si preparava il “beverone”, una sorta di brodo di crusca con cereali, legumi e granturco di cui l’animale andava ghiotto. Nei mesi autunnali invece, nella sua “dieta” entravano a far parte anche le ghiande, una prelibatezza che oltre a contribuire all’aumento del peso, influiva non poco nella bontà e sapore della carne. Spesso l’animale arrivava a superare anche i due quintali e molto gradito era anche il suo lardo, necessario per il condimento dei cibi durante tutto l’anno.
Qualche giorno prima del sacrificio iniziavano i preparativi, tutta le famiglie erano felicemente agitate, si invitavano i parenti e gli amici, evitando dimenticanze, che sarebbero sfociate inevitabilmente in vere e proprie offese. Coltelli, uncini e funi, erano pronti all’inizio dell’alba, nelle giornate più fredde con la luna calante, poiché come riteneva la credenza popolare era la condizione necessaria affinché la carne del sacrificio non ‘’andasse a male’’. Fuori le donne anziane alimentavano il fuoco sotto l’enorme caldaio che avrebbe fornito l’acqua bollente per la pulitura del maiale. Spesso c’era neve e la temperatura esterna era rigida, ma il freddo non veniva affatto avvertito; i piccoli alzati di buon ora facevano festa intorno al fuoco, sistematicamente allontanati dalle madri e dalle nonne nel timore di scottature.

Poco dopo arrivava il maiale seguito da tre o quattro uomini; era legato con una fune alla zampa anteriore, camminava a fatica per il peso e forse anche perché intuiva qualcosa di spiacevole. Veniva incitato a voce e allettato con chicchi di granturco che gli venivano disseminati davanti man mano che avanzava sullo strato di neve ghiacciata. Arrivato sul posto, l’animale veniva immobilizzato da quattro o cinque uomini, che gli legavano le zampe, mentre un altro uomo, armato di coltello, già gli aveva legato il grugno per evitare i morsi. Veniva poi preso di peso e collocato su un vecchio e robusto tavolo, mentre l’animale strepitava ed emetteva urli e gemiti sovrumani. Tutti gli altri intorno osservavano fermi e silenziosi e nei loro volti si poteva scorgere una certa forma di eccitazione tipica dei riti ancestrali .

A questo punto, l’uomo col coltello, con gesti rapidi e precisi che assumevano la solennità di un antico rito sacrificale, prima infilava un uncino sotto il muso dell’animale, che intensificava gli urli e gli strepiti e poi velocemente gli infilava il coltello in gola fino a recidere la giugulare. Il sangue fuoriusciva copioso e finiva nel recipiente che una donna teneva sotto l’animale e girava con le mani per evitare la coagulazione; sarebbe stato utilizzato per farne il sanguinaccio, un dolce molto diffuso nelle campagne fino a qualche anno fa. Infine il povero animale cessava di dibattersi e giaceva esanime sul tavolaccio.

Tutti, grandi e piccoli assistevano con scontata normalità a questo cruento rito che veniva praticato con una violenza inconcepibile se valutato con i parametri dei giorni odierni, ma allora le sensibilità erano ben diverse. Successivamente si procedeva alla spellatura, buttando addosso all’animale acqua bollente e raschiandolo con i coltelli che portavano via anche le setole. Veniva poi lavato con canovacci imbevuti di acqua calda e aceto e poi si infilavano i tendini delle zampe posteriori, appositamente scoperti, alle estremità di un legno a forma di “V” che, legato con funi all’apice, veniva fissato al soffitto sollevando il maiale e mantenendolo a testa in giù con le zampe divaricate; una posizione questa che ne facilitava la pulizia ed il lavaggio.

In questa posizione, il maiale si tagliava a metà partendo dall’alto con un coltellaccio affilato. Una volta aperto il suino, si infilavano le mani all’interno della carcassa e con un certo sforzo si tiravano fuori le interiora ancora fumanti e maleodoranti; sarebbero state tutte pulite dalle donne e utilizzate per gli insaccati. Nulla si buttava del maiale! Quindi, si asportavano pezzi di carne da cuocere per il pranzo di quella giornata di festa.

La carne veniva tagliata a pezzi, condita con sale e spicchi interi di aglio e messa in una padella e cotta sulla fiamma viva del camino. Immediatamente un armonioso sfrigolìo e un profumo intenso ed invitante si diffondevano per tutto l’ambiente, provocando l’acquolina in bocca a tutti i presenti. Quando la carne era ben rosolata veniva messa al centro della tavola e il grasso disciolto nella padella veniva colato sulle numerose fette di pane accatastate l’una sull’altra, ottenendo così la famosa “panonta” che veniva divorata con gusto dai presenti, insieme a pezzi di carne e spicchi d’aglio rosolato, che ognuno infilava direttamente dalla padella.

La festa era grande e anche la gioia perché dopo tanto tempo si mangiava e si assaporava carne, a lungo assente nelle tavole, il tutto condito dall’allegro brio portato dall’immancabile presenza del vino rosso novello appena spillato dalla botte migliore (Vedi anche www.bondante.it).
Oggi, in molte campagne avviene ancora l’uccisione “sacrificio” de “Lu porce”, ma, ovviamente non con questa cruenta tecnica tradizionale considerata disumana e fuorilegge almeno ufficialmente, ma secondo le tecniche di moderna macellazione della carne, perché il “sacrificio” del maiale è una tradizione che indica l’inizio dell’inverno in Abruzzo e per molti Abruzzesi non può essere inverno senza questo antico “rito”.

Cristiano Vignali – Direttore di Discovery Abruzzo Magazine
Vojtila Lara
– Discovery Abruzzo Magazine